Referendum sulla cannabis, l’ennesima occasione in fumo


Il percorso referendario avrebbe avviato un dibattito più ampio, necessario superare una lettura stereotipata del fenomeno "droga". Un passo in avanti verso la conoscenza di un fenomeno consolidato e diffuso, che è ipocrita negare, ma ancora trattato in ottica punitiva, a beneficio di mafie e circuiti criminali

Che rammarico. Il 15 febbraio la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sulla cannabis legale (leggi qui le motivazioni della bocciatura), che proponeva di depenalizzare la coltivazione e di eliminare il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. Molti sono stati i commenti a proposito, alcuni ponderati, altri decisamente a sproposito: quando l’onorevole Maurizio Gasparri, in una sua dichiarazione, ha visto in questa bocciatura la sconfitta definitiva del “partito della droga”, il mio pensiero è andato ai volti delle persone incontrate in questi mesi, educatori, operatori sociali e non, giovani e adulti, fautori appassionati di una lotta politica a difesa dei diritti e miti sostenitori di una direzione di buon senso, tutti favorevoli al Sì al referendum e al contempo lontanissimi da una malevola corporazione intenzionata a diffondere nel mondo la famigerata "droga".

Non mi permetto di entrare nel dibattito giuridico intorno alla valutazione della Corte, pur manifestando una profonda fiducia nell’analisi che Luigi Manconi ha affidato alle pagine del quotidiano La Stampa del 17 febbraio scorso, dove nell’articolo E se la consulta avesse sbagliato? l’autore fa emergere l’ipotesi, amplificata dall’inconsueta conferenza stampa del presidente Giuliano Amato e ampiamente discussa tra i giuristi italiani, che la decisione della Corte, guidata da criteri squisitamente politici piuttosto che tecnici, si sia fondata su un riferimento normativo non aggiornato e quindi soggetto ad equivoci.

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Ciò che mi preme è condividere con i lettori un vissuto che io e i miei colleghi abbiamo raccolto in questi giorni, all'interno dei servizi dedicati alle tossicodipendenze e tra persone che da decenni hanno “le mani in pasta” nel garantire quotidianamente vicinanza e supporto a chi usa sostanze: è il dispiacere, il rammarico per un’ennesima occasione sprecata. Il quesito referendario era alquanto limitato nella sua potenzialità trasformativa, non sarebbe andato a stravolgere la prospettiva politica italiana sul tema delle sostanze psicotrope, ma avrebbe allargato il campo delle libertà e delle possibilità, andando in particolare a regolamentare la pratica di coltivazione delle piante di cannabis (anche in una prospettiva di implementazione della possibilità terapeutica della stessa sostanza, già confermata dalla legge del 2007 e mai completamente sviluppata in una scelta politica consolidata a livello nazionale). La possibilità di un percorso referendario avrebbe avviato e permesso innanzitutto un dibattito più ampio e articolato sul tema, e ognuno di noi sa quanto sarebbe necessario superare una lettura povera e stereotipata del fenomeno droga, spesso preinscatolato in affermazioni perentorie, moralistiche, pregiudiziali e assolutamente incapaci di restituire la complessità delle pratiche di uso.

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Sarebbe stato un passo in avanti culturale, nella direzione di un allargamento delle azioni possibili nei confronti del consumo delle sostanze stupefacenti e delle persone che vi si dedicano, azioni che vanno dal comprendere al rispettare, all’ascoltare, all’educare e all’accompagnare. E invece come sempre il predicato vincente, in cui ci si è rifugiati, è proibire, una logica punitiva che chiude ogni possibilità di conoscenza e di regolamentazione del fenomeno, restando chiusi in una torre d’avorio da cui demonizzare tout court la sostanza e i consumatori e bearsi di una supposta – e ahimè effimera – superiorità morale. Proibire è non voler vedere, serrare gli occhi, le orecchie e il cuore, non osare il contatto con un "altro" capace di spiazzare le nostre certezze: è l’esatto opposto della relazione, della comprensione e dell’apertura educativa.

Ben vengano tutte le proposte di relazione e di aiuto, ma il primo bene che dobbiamo cercare è lo svincolo da un circuito punitivo che toglie opportunità e riduce le persone che usano sostanze a “problemi da correggere”

Dico questo con buona pace di chi, pur di non tradire un imperativo morale assoluto che vede negli stupefacenti e in chi ne fa uso una generica connotazione maligna, si rifiuta di accettare l’evidenza di un fenomeno sociale consolidato (che nella sola Italia, nelle stime più realistiche, coinvolge almeno sei milioni di persone) e di incontrare e comprendere le persone che usano cannabis, costringendo la complessità e la ricchezza delle loro vite in un riduttivo giudizio di negatività della loro pratica di consumo. Sento importante rivolgermi anche ai numerosi “benaltristi” per cui “ben altro va fatto nel campo delle sostanze”: si ribadisce l’importanza di una linea di azione sociale che va dall’educazione alla prevenzione, sino alla riduzione del danno (e l’Università della Strada del Gruppo Abele, incontrando ogni giorno operatori che a questo campo si dedicano, sente pienamente il valore di una tale prospettiva), ma si ricorda a tutti che il primo fattore di protezione da preservare è l’allontanamento da un circuito giudiziario che non fa altro che danneggiare e appesantire le storie delle persone coinvolte. Ben vengano tutte le proposte di relazione e di aiuto, ma il primo bene che dobbiamo cercare è lo svincolo da un circuito punitivo che toglie opportunità e riduce le persone che usano sostanze a “problemi da correggere”.

Esulando dal campo educativo e toccando però un tema tanto centrale come il denaro, i casi di legalizzazione nel mondo (ad esempio l’esperienza dello stato americano del Colorado è stata ampiamente descritta in numerosi studi e articoli, tra cui un interessante contributo di Piero David e Ferdinando Ofria su lavoce.info) non hanno evidenziato un aumento delle spese sanitarie, hanno visto notevolmente diminuire le risorse economiche impiegate per repressioni e carcerazioni, e hanno avuto ricadute positive in termini di introiti fiscali e nuovi posti di lavoro. E tutto questo senza considerare che le derive proibizionistiche siano le preferite dalle mafie e dai circuiti criminali.

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Il rammarico intorno alla sentenza della Corte non rappresenta – speriamo – una pietra tombale al dibattito in corso. Per noi – e siamo sicuri per molti altri – è anzi stimolo nel continuare a riflettere, proporre e sollecitare, per oltrepassare le considerazioni attuali e non far vincere, questa volta veramente, “il partito dell’ipocrisia”.

Coraggio, dunque.

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