Muri e persone: restare umani nei contesti carcerari
Le pagine dei giornali dei mesi passati, insieme ai grandi e tragici eventi che stanno segnando questo doloroso autunno, hanno spesso riportato notizie di indagini e provvedimenti relativi ad accuse di botte, abusi e torture perpetrate da agenti penitenziari nei confronti di soggetti detenuti, nelle carceri di Cuneo, Torino, Ivrea, Biella e – almeno per uscire dal contesto regionale – dell'‘Isola d’Elba. Si tratta di situazioni diverse, ma tutte accomunate da un’ipotesi accusatoria di violenze pesanti e collettive.
Questi eventi ci fanno pensare, sentiamo il bisogno di una chiave di lettura che possa permetterci di guardare a quanto succede senza ridurci ad un’esclusiva considerazione caso per caso. Ovviamente la responsabilità individuale è evidente, e l’auspicio è che gli autori di questi crimini vengano sanzionati dalla Giustizia. Sento però l’esigenza di non derubricare quanto successo ad una pura variabile individuale e nemmeno ad un semplice contagio negativo nel comportamento tra colleghi: abbiamo bisogno di superare la riduttiva retorica delle “poche mele marce” e ragionare sulla potenzialità generatrice di violenza di un contesto istituzionale e restrittivo come il carcere.
Senza alcuna ambizione di assoluzione personale, resta però utile cercare di comprendere come iniziative di violenza, prevaricazione e umiliazione sembrano emergere “naturalmente” dallo sfondo dell’esperienza penitenziaria, in Italia e nel resto del mondo: non normalizzare questo sopruso, continuare a chiedersi perché avvenga è un segno di rispetto verso le vittime e una ricerca precaria di spazi di cambiamento.
Le pagine di Sorvegliare e punire. La nascita della prigione di Michel Foucault ci aiutano almeno parzialmente a inquadrare queste dinamiche, così come altre importanti letture sul tema. Gli episodi citati mi hanno però immediatamente portato alla memoria il percorso di ricerca di Philip Zimbardo, psicologo statunitense eterodosso che negli anni Settanta del secolo scorso ha approfondito le variabili situazionali e ambientali che contribuiscono a generare la violenza.
È celebre per l’esperimento del carcere di Stanford, in cui coinvolse una ventina di studenti volontari nella simulazione di due settimane di esperienza carceraria verosimile, riprodotta nello scantinato dell’Università californiana; egli dovette concludere prematuramente la prova per una drammatica escalation di comportamenti sadici e violenti delle finte guardie nei confronti dei finti detenuti (il racconto dettagliato giorno per giorno e le riflessioni dell'autore le possiamo trovare nel volume L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa?).
Perché persone che in contesti come quelli famigliari e amicali si muovono con un sufficiente livello di sensibilità, se si ritrovano in certi ruoli, in certi ambienti e con un potere a disposizione, si permettono gesti che mortificano altri soggetti e li rendono meri oggetti di abuso, prevaricazione e degradazione? Quanto l’ambiente, le dinamiche gruppali, l’esercizio del potere innescano derive disumanizzanti altrove impensabili?
Si tratta di una riflessione importante perché generativa e potenzialmente trasformativa. Non possiamo ovviamente generalizzare, negli anni in cui con diversi progetti l’Università della Strada ha lavorato nei contesti penitenziari ha incontrato operatori – di trattamento così come di sicurezza – di grande competenza e umanità, capaci di mantenere una dimensione empatica e relazionale in un ambiente duro come quello carcerario. Abbiamo però anche respirato un’aria più pesante, abbiamo colto i segnali di quel processo di disumanizzazione e di slatentizzazione della violenza che Zimbardo racconta nelle sue pagine. L’abbiamo ritrovato sia in manifestazioni aperte di prevaricazione che nella patina di gregarietà e omertà che talvolta circonda questi spazi: forse una strategia di cambiamento può consistere nel continuare a formare e sensibilizzare il gruppo degli agenti affinché possano dissolversi spazi di collusione e implicita copertura. Insieme a queste dinamiche violente, più o meno esplicite, abbiamo anche incontrato la sofferenza degli operatori penitenziari, che lavorano ore e giorni in un contesto di restrizione e ne assorbono inevitabilmente il malessere e la tensione circolanti. Diventa necessario non lasciare soli i singoli agenti, condividere e prendersi cura da un punto di vista operativo, motivazionale ed emotivo, per non scivolare nelle pericolose derive del burnout o di una modalità reattiva di gestione di ogni evento stressante.
Interrogarsi sulla potenzialità generativa di violenza dell’ambiente carcerario non significa semplificare né assolvere nessuno, è chiedersi se azioni concrete di revisione dei contesti, delle pratiche, degli strumenti operativi a disposizione e percorsi di condivisione, formazione e supporto agli operatori di sicurezza possano permettere di arginare derive di abuso e bonificare questi ambienti, in sé segnati dalla fatica e dalla reclusione, da dinamiche disumanizzanti.
Leggi anche: La “fabbrica della delinquenza”. Il Gruppo Abele e il carcere minorile
Leggi anche: “È vietata la tortura”, XIX rapporto di Antigone sulle condizioni detenzione