Le ali della disperazione

Stephen King, in un racconto tratto dalla raccolta Stagioni diverse, tracciò un memorabile spaccato della vita nelle carceri. Il tempo della storia è il 1947, lontano eppur così attuale. È una storia di redenzione, di speranza e di fiducia… l’anima e il suo coraggio vincono a dispetto dell’inferno in cui si è cacciati.

L’anziano bibliotecario Brooks, atterrito dalla libertà, dopo 50 anni di carcere, si toglie la vita. Laddove (dentro) il tempo per pensare è tanto, non vi è modo di costruire un futuro e paradossalmente, quando il futuro arriva il fuori è vuoto perché privo di relazioni, di legami ma soprattutto di senso.

Oggi, nel 2023, non è un racconto a ispirare una riflessione sulla vita carceraria, bensì la morte di Oussama Sadek, che l’8 dicembre si è suicidato nel carcere di Verona. Da gennaio, 66 persone lo hanno fatto e vogliamo tentare di comprendere come l’anima possa trasformare la parola sofferenza in un gesto così estremo.

Non sono ali di speranza quelle di molte persone detenute, e la condizione che esse vivono deve interrogarci ancora una volta su come rendere il sistema della giustizia più umano.

Un dentro che non distingue le forme dell’aggressività come reazione all’esasperazione, e che propone l’isolamento come soluzione ad una domanda di aiuto che non viene colta e che quando lo è, si inceppa nelle maglie di un sistema sanitario intra-murario che attende senza poter dare risposte idonee.

Vorremmo comprendere come le domande di aiuto possano trovare maggior ascolto, in un sistema che parcellizza l’intervento e impoverisce sempre più le risorse professionali, laddove la popolazione carceraria non diminuisce.

Arriva il tempo del Natale e delle tante iniziative all’interno di quelle mura anguste, per portare un minimo di presenza e conforto. Ma noi, che spesso abbiamo lavorato con gli operatori del carcere (sia operatori di polizia penitenziaria, sia operatori socio sanitari) in attività di formazione, vogliamo chiedere con tenacia che la logica della cura in carcere non sia relegata a progetti a scadenza, e neppure alla buona volontà di operatori resistenti.

A volte riflettere ad alta voce e portare un messaggio culturale, vuol essere un modo per essere vicini a chi, a Verona come simbolo delle tante realtà carcerarie di Italia, chiede di fare chiarezza per evitare che il grido di sofferenza si trasformi in disperazione.

Non ci sono ali capaci di fare volare alto un grido di giustizia, ma il tentativo di non stare in silenzio… cercando di dialogare, anche attraverso la formazione, con chi abita il carcere… perché una morte deve saperci muovere verso non certo il pietismo che poco aiuta, ma verso la “semantizzazione” più profonda della parola giustizia. Il diritto alla cura ne rappresenta una dimensione che deve esser esigibile… ovunque l’umano vive.

 

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